Leno (Bs) 8 Luglio 2005

Angelo Branduardi in concerto a Villa Badia

Photos and comments by Max Giuliani


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Qualche mese prima eravamo stati a Brescia a vedere ed ascoltare la “Lauda”. Al termine dello spettacolo, secondo l’affettuoso e consueto rituale del concerto, gli artisti si erano ritirati dietro le quinte e il pubblico, con grida e rumori, aveva chiesto a gran voce di avere ancora musica.

Angelo era tornato sul palco con strumentisti e ballerini e aveva imbracciato il violino per dare inizio alla parte più informale e – forse – più festosa della serata. Ma sulle prime note di “La pulce d’acqua”, col pubblico che lasciava le seggiole e correva verso il palco per ballare e far festa, era capitato l’inatteso: si erano accese le lampade d’emergenza e si era spenta l’illuminazione sul palco, erano ammutoliti violino e fisarmoniche, lasciando la batteria a parlare da sola nella penombra. Dopo una breve e inutile attesa, musici e danzatori avevano allargato le braccia in segno di resa al black out elettrico e avevano salutato il pubblico con ampi gesti abbandonando il palco.

Chi si allontanava verso il parcheggio per recuperare l’auto nella umida notte bresciana, si portava a casa – insieme al ricordo di uno spettacolo caldo in cui l’intreccio di narrazione, musica e danza aveva funzionato ed emozionato – un’ombra di disappunto ma soprattutto la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire.

           

Con gran piacere, dunque, abbiamo saputo che la sera dell’8 luglio Angelo Branduardi (il “menestrello d’Europa”, annunciavano i manifesti: vabbé…) avrebbe suonato a Leno.

Serata mite, dopo alcuni giorni di gran sole ma anche di violenti temporali e pertanto dopo una giornata di scongiuri. Per il piacere di alcune centinaia di spettatori, il concerto inizia quasi puntuale, nonostante il buio tardi ad arrivare e la luce sia ancora quella del sole.

Angelo annuncia una serata divisa in due parti: una acustica, “all’insegna del meno c’è, più c’è”, e una, scherza, “più vicina al genere che mi contraddistingue: l’heavy metal”.

Inizia col solo violino una “Fiera dell’Est”, da principio difficile da riconoscere, con una lunga introduzione strumentale.

Qualche brano dopo entrano Davide Ragazzoni, Stefano Olivato e Giovanni Vianelli. Siedono in un lato del palco, attorno a una specie di grande bodhran posizionato in orizzontale su un treppiedi, come attorno a un tavolo, e prendono a offrire un tappeto discreto di fisarmonica (Vianelli), percussioni e handclapping (Ragazzoni e Olivato, e lo stesso Vianelli quando depone la fisa) al violino e alla chitarra di Angelo.

La parte acustica scorre piacevole: “Ballo in fa diesis minore”, “Il dono del cervo”, “Cogli la prima mela”, “Sotto il tiglio”, “La donna della sera”, “Il funerale”. Angelo commenta i brani e parla col pubblico tra una canzone e l’altra, e chi lo segue da tanto non può fare a meno di notare che gli anni, assieme al grigio della chioma ormai proverbiale, gli hanno conferito un’ironia divertente e rilassata.

  

Il “ponte” tra il set acustico e quello elettrico è “Cercando l’oro”: a metà del brano i musicisti si alzano dalla loro postazione e occupano il palco per dedicarsi ai loro strumenti elettivi: Vianelli tra fisarmonica e tastiere, Ragazzoni dietro tamburi e piatti, Olivato al contrabbasso elettrico. Termina il brano, e il pubblico plaudente sa cosa sta per accadere: la parte di concerto che segue (sì, insomma, quella “heavy metal”) pesca tutta quanta da “L’infinitamente piccolo”, ed è evidente che è la parte dello spettacolo che Angelo “sente” di più. È una fase della sua vita artistica in cui è totalmente calato dentro il lavoro su Francesco d’Assisi, in più occasioni ha fatto capire di sentirlo una svolta umana e professionale, e va bene così.

La mia impressione è che nella prima parte (che pure forse costituisce per Angelo il “pegno” da pagare dal vivo prima di dedicarsi a quello che ha davvero a cuore oggi) ci fosse più anima che nel lungo set su Francesco, in cui le tastiere e l’elettronica si inventavano tutto quello che c’è sul disco ma che non era possibile portare sul palco.

Inevitabilmente il ricordo va ai concerti in cui era circondato da tanti strumenti popolari, ai tempi dei duetti con Maurizio Fabrizio, a quelle due chitarre che sembravano nate per parlare l’una con l’altra. Ma oggi Angelo è questo: prendere o lasciare.

E, tutto sommato, chi vi scrive decide di prendere. Per quello che rimane (che c’è, comunque, ed è sempre in buona salute) della magia che lo impose negli anni 70 come un musicista innovativo e coraggioso, per il modo in cui porta avanti un’idea di musica colta e popolare insieme che ha a che fare con le nostre eredità, perché fa delle scelte che (sì, anche quando non si riesce a condividerle fino in fondo) sono oneste e impudenti: proprio quanto è impudente una chitarra acustica in mezzo alla plastica, ai distorsori istituzionalizzati e ai finti ragazzacci da suoneria per i telefonini.

E perché, alla fine, nello stanco chiacchiericcio su “musica etnica” e “world music”, Branduardi resta l’artista che meglio di tutti, qui da noi, incarna un’idea cosmopolita di musica.

Per il bis, gran finale voce e chitarra con “Confessioni di un malandrino” e “Stella matutina dele scelera” (“teologicamente, una piccola eresia”, spiega Angelo). Saluti, pubblico sotto il palco per stringergli la mano, energumeni del servizio d’ordine che tengono severamente a distanza i pericolosi fans. Angelo tranquillizza gli energumeni e, seppure visibilmente stanco, non si nega all’affetto del pubblico.

Quando si dice la classe.

Max Giuliani

 

 

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